N. 46 SENTENZA 12 MARZO 1970 Deposito in cancelleria: 23 marzo 1970. Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 76 del 25 marzo 1970. Pres. BRANCA - Rel. MORTATI LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Prof. GIUSEPPE BRANCA, Presidente - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO ROSSI, Giudici, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 570, primo comma, del codice penale promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 18 aprile 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Pisano Duilio, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica n. 222 del 31 agosto 1968; 2) ordinanza emessa il 13 febbraio 1969 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Crispo Michele ed altro, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 del 21 maggio 1969. Visti gli atti di costituzione di Pisano Duilio e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell'udienza pubblica del 28 gennaio 1970 il Giudice relatore Costantino Mortati; udito il sostituto avvocato generale dello Stato Vito Cavalli, per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto: 1. - Nel corso di un procedimento penale iniziato contro tale Pisano Duilio per il delitto di cui all'art. 570, prima parte, del codice penale, commesso ai danni del coniuge con l'abbandono del domicilio domestico, il pretore di Roma, su conforme istanza della difesa, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 570 predetto, nella parte in cui stabilisce la perseguibilità d'ufficio del reato, in riferimento all'art. 29 della Costituzione. Nella motivazione dell'ordinanza si afferma che il detto art. 29 ha inteso superare la strumentalizzazione della famiglia, quale comunità collegata al perseguimento degli interessi di regime, ed accettare, invece, come principio fondamentale, quello dell'autonomia familiare come realtà immanente nella società, alla quale l'ordinamento dello Stato è, per alcuni versi, condizionato. Dal riconoscimento della famiglia così configurata il pretore deduce che l'intervento dello Stato nell'ambito dei rapporti familiari non può operare altro che in funzione di limite all'esplicazione di tale autonomia, e soltanto in quanto i fini che il nucleo persegue risultino contrastanti con gli interessi dello Stato. In particolare, i limiti che gli organi pubblici possono porre all'autonomia della famiglia sono soltanto quelli che si ricavano dallo stesso art. 29, cioè il rispetto del principio di eguaglianza dei coniugi e dell'altro dell'unità familiare. Contraria a quest'ultima finalità si palesa la norma dell'art. 570 (introdotta per la prima volta dal legislatore fascista) perché, reprimendo in modo definitivo il comportamento antigiuridico di un membro della famiglia, e sottraendo ai soggetti direttamente lesi un jus poenitendi, giunge al risultato di pregiudicare la ricomposizione del nucleo familiare cui sarebbe possibile giungere con una successiva riconciliazione dei coniugi. Una siffatta esigenza ha invece avvertita il legislatore repubblicano quando ha sancito, a modifica del codice Rocco, la perseguibilità a querela delle lesioni prodotte ai danni del coniuge. L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 222 del 31 agosto 1968. Avanti la Corte costituzionale si è costituito, per l'imputato Pisano, l'avv. Nicola Catalano il quale, nella sua memoria, mette in luce le particolarità del caso che ha dato luogo al giudizio a quo: si tratta infatti di un contrasto sorto fra due coniugi e già composto prima della celebrazione del dibattimento, che ha dovuto egualmente aver luogo appunto a causa della procedibilità d'ufficio del reato. Aderendo ai motivi enunciati nell'ordinanza del pretore, e con riferimento solo al caso della sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge, la difesa del Pisano riafferma che l'art. 570 è in contrasto col principio sancito dall'art. 29 della Costituzione. Quest'articolo, nel definire la famiglia come "società naturale", ha certamente inteso (quale che sia il significato voluto attribuire a detta espressione, di ordinamento preesistente o non allo Stato) porre un limite all'intervento statale nell'ambito di essa. Se tale è il senso dell'articolo in parola, come risulta anche dai lavori dell'Assemblea costituente, non è dubbio, che la procedibilità d'ufficio del reato in questione, ponendo un'ingiustificata ingerenza dello Stato nei confronti del nucleo familiare, contrasta con la garanzia che la Costituzione ne ha dato. Richiamato il clima ideologico in cui il codice penale fu elaborato e la dottrina giuridica che si è occupata di questa previsione di reato, il difensore argomenta anche per sostenere che la procedibilità d'ufficio dell'art. 570, oltre che violazione dell'autonomia della famiglia, costituisce anche un attentato alla sua unità. Infatti questa norma spesso fa sorgere un impedimento alla riconciliazione dei coniugi, che sono del tutto impotenti di fronte al proseguimento dell'azione penale, anche quando è venuto meno ogni loro interesse a coltivarla, come è dimostrato proprio dalle particolarità della vicenda sub judice. Conclude chiedendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 570. 2. - Analoga questione è stata sollevata, nel corso del procedimento penale pendente contro Crispo Michele e Loseggio Maria, anche dal pretore di Torino il quale, nell'ordinanza del 13 febbraio 1969, dopo avere richiamato i motivi addotti nell'ordinanza del pretore di Roma di cui sopra, osserva che l'art. 570, primo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede la punibilità d'ufficio ed in quella che esclude l'estinzione del reato a seguito di riconciliazione fra i coniugi, appare contrastare col secondo comma dell'art. 29 della Costituzione. Posto che questa norma stabilisce come unico limite all'affermazione dell'eguaglianza dei coniugi la necessità della tutela dell'unità familiare, il pretore osserva che, quando lo equilibrio familiare è in crisi per un fatto che rientra nella previsione dell'art. 570, primo comma, codice penale, l'inizio di un procedimento penale ex officio ostacola l'eventuale riconciliazione dei coniugi o, ove questa si sia già realizzata, è suscettibile di comprometterne il mantenimento, in quanto richiama necessariamente in vita fatti superati, ma suscettibili di dar vita a nuove controversie. Osserva altresì che in fattispecie meno rilevanti (come nel caso dell'art. 641 c.p.), proprio in omaggio all'autonomia dei privati, l'adempimento dell'obbligazione prima della condanna estingue il reato. Particolarmente grave appare al pretore la contraddizione fra il disposto dell'art. 570 e quello di altri articoli (581, 582, 612, 594 ecc.) che prevedendo, nello stesso ordine di rapporti familiari, fatti che raggiungono limiti di intollerabilità particolare, sanciscono la loro perseguibilità solo a querela di parte. L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 128 del 21 maggio 1969. Avanti la Corte è intervenuta l'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, la quale, nell'atto di intervento depositato il 9 giugno 1969, eccepisce innanzi tutto che la questione è inammissibile poiché il pretore non ha precisato sotto quale profilo sarebbe rilevante rispetto al procedimento penale in corso e non ha indicato l'attività materiale delittuosa degli imputati, in considerazione della quale sarebbe stata loro contestata la violazione dell'art. 570 del codice penale. Passando quindi ad esaminare i motivi dedotti nell'ordinanza di rimessione, l'Avvocatura osserva che la questione è infondata e richiama innanzi tutto la sentenza n. 107 del 4 dicembre 1964 con la quale la Corte dichiarò non fondata una diversa questione proposta nei confronti dell'art. 570 del codice penale. In relazione ai profili dedotti, sottolinea che il riconoscimento dei diritti della famiglia come "società naturale fondata sul matrimonio" non conduce a ritenere che nel nostro ordinamento giuridico l'istituto familiare sia stato considerato avulso dall'ordinamento statuale, di talché il legislatore ordinario sia tenuto a disinteressarsi del suo funzionamento. Dopo avere notato come il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare sia previsto da tutte le legislazioni moderne, l'Avvocatura viene a trattare della perseguibilità d'ufficio di esso, e, dalla considerazione che la maggior parte dei reati contro la famiglia sono così perseguibili, deduce che l'oggettività giuridica del reato è irrilevante ai fini della procedibilità a querela o d'ufficio: se infatti la procedibilità a querela di alcuni reati contro la famiglia fosse determinata dalla necessità di evitare che l'intervento del magistero punitivo operi come elemento disgregatore dell'unità familiare, non si spiegherebbe perché detta esigenza non debba valere nei riguardi di tutti i reati in questione. In conclusione, secondo l'Avvocatura, la perseguibilità a querela di determinate fattispecie criminose, come pure la eventuale previsione della riconciliazione fra i coniugi come causa di estinzione di determinati reati, deve costituire oggetto di una complessa valutazione di politica criminale rimessa alla discrezionalità del legislatore, nella quale possono esercitare peso decisivo (come nel caso in esame) la situazione in cui versa di norma il soggetto passivo del reato e la spiccata rilevanza sociale degli interessi lesi. Nella memoria presentata il 15 gennaio 1970, l'Avvocatura ribadisce queste tesi senza aggiungere osservazioni nuove. Considerato in diritto: Le due cause, riguardando la stessa questione, vanno riunite e decise con unica sentenza. 1. - L'Avvocatura dello Stato, costituitasi nel giudizio promosso con l'ordinanza del pretore di Torino, ha proposto in via preliminare l'eccezione di inammissibilità della questione sollevata, ritenendo che manchi nella specie la determinazione dell'attività materiale delittuosa degli imputati ricadenti sotto il denunciato art. 570 del codice penale (violazione degli obblighi di assistenza familiare). L'eccezione è infondata essendo sufficiente, al fine dell'accertamento della sussistenza del requisito della rilevanza, che risulti dall'ordinanza il fatto dell'avvenuta sottoposizione a giudizio pel reato in ordine al quale la questione è sollevata. 2. - Il dubbio sulla costituzionalità del primo comma dell'art. 570 è fondato sull'opinione che la perseguibilità di ufficio del reato di omesso adempimento degli obblighi di assistenza familiare, quale ivi disposta, si ponga in contrasto con la posizione, assegnata dalla Costituzione alla famiglia, di "società naturale", come tale dotata di un'autonomia di fronte allo Stato, suscettibile di essere assoggettata a limiti solo quando questi si palesino necessari ad assicurare l'eguaglianza dei coniugi e l'unità della famiglia. Il che non si verificherebbe nei riguardi della sanzione irrogata dall'articolo in esame in quanto il fatto di non richiedere per la perseguibilità del reato la querela di parte può piuttosto condurre al risultato di compromettere quell'esigenza della unità che è costituzionalmente protetta. A parte ogni indagine, non necessaria al fine della soluzione della questione, circa l'esatta portata della qualificazione di "società naturale" attribuita alla famiglia, è da escludere che gli interventi autoritativi in ordine alla sua gestione siano consentiti solo ai fini di assicurare l'unità del nucleo familiare, nel senso restrittivo con cui questa è intesa nelle ordinanze. Infatti la stessa Costituzione, al successivo art. 30, dispone che la legge può provvedere a che siano assolti i compiti di spettanza dei genitori nel caso di una loro incapacità ad adempierli, allontanando quindi, se necessario, i figli minori dalla famiglia. Del resto le stesse ordinanze finiscono con il convenire che l'autonomia da esse richiamata debba venir meno quando il suo esercizio sia tale da determinare un contrasto con i fini dello Stato. E non si può dubitare del verificarsi di tale ipotesi allorché soggetti passivi della violazione degli obblighi di assistenza siano i minori, ai quali, ove si aderisse all'opinione confutata, verrebbe a mancare ogni possibilità di tutela di fronte alle inadempienze dei genitori, almeno nel caso che esse siano da addebitarsi proprio ad essi o all'unico genitore superstite. 3. - Anche se, seguendo siffatto ordine di considerazioni, la questione venga limitata (come sembra messo in evidenza dall'ordinanza del pretore di Torino, e come più esplicitamente risulta dalla memoria della difesa di parte nella causa proveniente dalla pretura di Roma) alla sola ipotesi della sottrazione degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge, la si deve egualmente ritenere non fondata. Il contrasto che viene allegato con l'art. 29, prospettato com'è sotto la specie del pregiudizio all'unità della famiglia, è fatto discendere dalla considerazione che il promuovimento ex officio dell'azione penale fa venire meno gli effetti riparatori di una riconciliazione fra i coniugi che abbia a verificarsi prima del giudizio. Che siffatte considerazioni non siano decisive a far ritenere la fondatezza dell'assunto, ed anzi appaiano in certo modo reversibili, è dimostrato dalla constatazione che, allorché il legislatore del 1930 ebbe ad introdurre il reato in parola, innovando al precedente codice che lo ignorava, a giustificare la perseguibilità di ufficio si fecero valere, non solo ragioni attinenti alla tutela dell'interesse generale al mantenimento di un sano ordine familiare (che sarebbe potuto rimanere pregiudicato dal sistema della querela, il cui esercizio avrebbe potuto trovare una remora nel timore suscitato nell'animo del soggetto passivo dall'indole violenta del coniuge colpevole, oppure dalla tendenza del soggetto stesso a sopportare sofferenze, pur se gravi, compatendo quegli che ne è causa), ma anche motivi desunti dalla preoccupazione di evitare ragioni di rancore fra i coniugi, come quella derivabile dalla proposizione della querela. Risulta pertanto come non sussistano elementi così decisivi da fornire un sicuro criterio atto a vincolare il legislatore (sotto il riguardo della preservazione dell'unità della famiglia voluta garantire dalla Costituzione) nella scelta del modo di procedibilità pel reato in esame. Scelta che deve di conseguenza rimanere affidata a valutazioni discrezionali, insindacabili in questa sede, circa l'opportunità di attribuire peso prevalente all'una o all'altra serie di motivi addotti a sostegno dei due orientamenti prospettati. Né sussiste il pericolo che, assumendosi un'interpretazione troppo rigida degli obblighi inerenti alla qualità di coniuge, la perseguibilità d'ufficio della loro violazione possa condurre, come si afferma nella difesa della parte privata, ad un eccessivo controllo del pubblico potere sull'intimo andamento della società coniugale: infatti la norma impugnata colpisce solo quei comportamenti illeciti (come l'abbandono del domicilio domestico, o la condotta contraria all'ordine ed alla morale della famiglia), che costituiscono le più gravi mancanze ai doveri provenienti dal vincolo maritale, e non già tutti quelli che possono farsi derivare dalla violazione degli artt. 143 e seguenti del codice civile. Nessuna rilevanza può esercitare sulla questione, così com'è stata prospettata, la considerazione che altri reati, anch'essi contrastanti con l'ordine delle famiglie (perseguibili in luogo di quello di cui all'art. 570, che perciò viene a rivestire carattere di sussidiarietà) siano punibili solo su querela, come avveniva per l'adulterio e il concubinato, e come ancora avviene per le ingiurie, le minacce non gravi, le percosse è le lesioni lievi. È vero, per quanto riguarda quest'ultimo reato, Che durante i "lavori preparatori per l'emanazione della legge 26 gennaio 1963, n. 24 (la quale, a modifica dell'art. 582 c.p., ha richiesto la querela per la punibilità delle dette lesioni, se cagionate a danno di familiari, e ciò al proclamato scopo di meglio assicurare l'unità familiare) venne prospettata l'esigenza che analogo trattamento dovesse disporsi anche pel reato di cui all'art. 570, primo comma. Ed è altresì vero che una proposta di legge per la modifica di quest'ultima norma, nel senso prospettato, era stata effettivamente presentata in precedenza, nella seduta del 25 settembre 1958 (doc. n. 242 Camera, 3 Legislatura), poi decaduta per la fine della legislatura. Ma le circostanze riferite sembrano invocabili proprio a comprovare l'esattezza di quanto prima asserito: che cioè la diversa rilevanza dei reati attinenti ai rapporti familiari, al fine della scelta delle modalità di impulso processuale (scelta, come è noto, non collegabile a considerazioni relative alla maggiore o minore gravità delle pene previste), è materia di politica legislativa, così da sfuggire a censure di legittimità costituzionale, sotto l'aspetto della conformità all'art. 29. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 570, primo comma, del codice penale, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe, in riferimento all'art. 29 della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 1970. GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI - NICOLA REALE - PAOLO ROSSI.