N. 358 SENTENZA 13-24 LUGLIO 1995 LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE; Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA; ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), ed in particolare dell'art. 3, promosso con ordinanza emessa il 16 giugno 1994 dalla Commissione tributaria di 1 grado di Genova sul ricorso proposto da Alberti Giancarlo ed altra contro l'Intendenza di finanza di Genova, iscritta al n. 580 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale dell'anno 1994; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 1995 il Giudice relatore Fernando Santosuosso. Ritenuto in fatto 1. - Nel giudizio promosso con ricorso proposto da Alberti Giancarlo e da sua moglie contro l'Intendenza di finanza di Genova, i ricorrenti - nella loro qualità di coniugi presentatori di denuncia dei redditi congiunta con la quale si erano attribuiti la titolarità del reddito costituito dallo stipendio del marito, denuncia rettificata dall'Ufficio con attribuzione dell'intero reddito al marito - chiedevano il rimborso di parte della quota I.R.P.E.F. corrisposta mediante trattenuta diretta sulla retribuzione. La Commissione tributaria di 1 grado di Genova, con ordinanza emessa il 16 giugno 1994, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche). Ritiene il giudice rimettente che la normativa richiamata, correttamente interpretata dall'Amministrazione, sia in contrasto con gli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione, alla luce del principio posto da questa Corte con la sentenza n. 179 del 1976, ed in particolare dell'auspicio in tale decisione formulato, che a distanza di molti anni non è stato ancora raccolto dal legislatore: si renderebbe pertanto necessario un intervento della Corte per aprire la strada a disposizioni più moderne in tema di tassazione dei redditi destinati alla gestione familiare, nella ipotesi in cui essi siano prodotti da un solo soggetto, ma di fatto utilizzati nell'interesse comune di entrambi i coniugi. Così facendo, si realizzerebbe una più pregnante attuazione della Costituzione, sia sotto il profilo della tutela della famiglia (artt. 29 e 31 della Costituzione), che sotto quello dell'uguale dignità dei coniugi (art. 3), che infine sotto quello della equa imposizione tributaria (art. 53). Pur censurando il generale sistema del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, il giudice rimettente appunta i propri rilievi sull'art. 3 di esso, nella parte in cui non prevede, tra le eccezioni al regime della imposizione personale, la titolarità comune dei redditi fra coniugi. 2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo nel senso dell'inammissibilità o, in subordine, dell'infondatezza della questione. Ritiene in primo luogo la difesa erariale che con l'ordinanza di rimessione il giudice a quo chiede una pronuncia additiva, con la quale si introduca il c.d. splitting, così profondamente innovando la legislazione tributaria. Al riguardo, si ritiene che tale scelta attenga alla sfera politica (di politica economica generale e, congiuntamente, di politica tributaria e di politica della famiglia e demografica) rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario, anche in ragione della sua complessità dal punto di vista tecnico-tributario. Nel merito, ritiene la difesa erariale che la questione sia infondata, in quanto nessuna delle disposizioni invocate impone l'adozione del c.d. splitting: sostiene anzi che la giurisprudenza di questa Corte sia nel senso di ritenere che l'esigenza di favorire la famiglia possa essere appagata mediante tecniche diverse. Considerato in diritto 1. - La Commissione tributaria di primo grado di Genova dubita della legittimità costituzionale del sistema normativo dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, poi trasfuso nel testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), specificamente dell'art. 3, nella parte in cui non prevede che, ai fini dell'imposizione tributaria, il reddito di uno dei coniugi venga imputato parzialmente all'altro qualora questi sia privo di reddito proprio anziché essere interamente attribuito al solo coniuge produttore del reddito stesso, per contrasto con gli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione. 2. - La questione è inammissibile. L'esigenza di un trattamento fiscale dei redditi dei componenti della famiglia ispirato a criteri di maggiore equità e giustizia è stata considerata in diverse legislazioni degli Stati contemporanei ed è stata anche avvertita molte volte nel nostro ordinamento. Già la riforma del diritto di famiglia, introdotta con la legge 19 maggio 1975, n. 151, aveva stabilito che il reddito dell'impresa familiare deve imputarsi a ciascuno dei soggetti percipienti, ivi compresi i familiari che prestano lavoro domestico; anche se successivamente ciò è stato limitato ad una quota percentuale dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore. Con la sentenza n. 179 del 1976, questa Corte, nel dichiarare l'illegittimità, per contrasto con gli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione, delle disposizioni che prevedevano il cumulo dei redditi della moglie con quelli del marito ai fini dell'applicazione dell'aliquota complessiva, rilevava l'ulteriore rischio relativo alla tassazione della famiglia monoreddito, in cui "non è solo il marito a disporre del reddito ma entrambi i coniugi", e auspicava per la materia una più adeguata disciplina, invitando il legislatore ad attuare un sistema tributario "che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice". 3. - Con la successiva sentenza n. 76 del 1983, questa stessa Corte dichiarò inammissibile una serie di questioni di legittimità costituzionale, tra le quali quella riguardante le norme che prescrivono l'imputabilità del reddito interamente al soggetto che lo produce senza separazione della parte di esso destinata ad altri membri della famiglia o senza deduzione di tutti gli oneri sopportati nell'interesse di questa. In tale sentenza si prese atto che la raccomandazione rivolta al legislatore nella precedente pronuncia n. 179 del 1976 non era stata considerata dalla legge n. 144 del 1977 per l'addotto motivo, risultante dagli atti parlamentari, che pur non disconoscendo "ai sistemi del cumulo facoltativo del quoziente familiare e dello splitting, accolti in alcune legislazioni straniere (...) il pregio di apprestare, in determinate situazioni, strumenti più adeguati alla tassazione dei redditi familiari", si era osservato che "l'intrinseca complessità di tali sistemi postula valutazioni e scelte non sempre facili, nonché una modulistica assai differenziata". La richiamata sentenza del 1983 rinnovò tuttavia l'invito al legislatore al fine di "apprestare rimedio alle sperequazioni che da tale sistema, rigidamente applicato, potrebbero derivare in danno della famiglia nella quale uno solo dei coniugi possegga reddito tassabile, rispetto a quella in cui ambedue i coniugi posseggono reddito, pari nel complessivo ammontare a quello della famiglia monoreddito, ma soggetto a tassazione separata, con aliquote più lievi per le due componenti". Soggiungeva la Corte che "l'innegabile esigenza di correggere tali effetti distorsivi, nella prospettiva di quel favor familiae cui si informa l'art. 31 della Costituzione, può, invero, venire appagata sia con oculata scelta di un sistema alternativo, suscettibile di essere affiancato in via opzionale al sistema della tassazione separata, sia anche all'interno di quest'ultimo, ristrutturando gli oneri deducibili e le detrazioni soggettive dell'imposta per meglio adeguarli all'esigenza medesima". 4. - Questo secondo invito della giurisprudenza costituzionale indusse il legislatore (art. 19 della legge 29 dicembre 1990, n. 408) a delegare il Governo ad "adottare, entro il 31 dicembre 1992, uno o più decreti legislativi concernenti la revisione del trattamento tributario dei redditi della famiglia" secondo una lunga indicazione di principi e criteri direttivi. Fra questi, si prevedeva anzitutto la "commisurazione dell'imposta alla capacità contributiva del nucleo familiare tenendo conto del numero delle persone che lo compongono e dei redditi da esse posseduti" mediante l'applicazione dell'aliquota media corrispondente al reddito complessivo diviso per il numero dei componenti del nucleo. Si stabilivano poi analiticamente tutte le modalità del nuovo sistema, ivi compresi i criteri di rilevanza delle convivenze di fatto, dei componenti ultrasessantacinquenni e delle persone affette da menomazioni fisiche o psichiche; prevedendo infine la graduale entrata in vigore del nuovo trattamento, da coordinarsi con la disciplina degli oneri deducibili e delle detrazioni per carichi di famiglia. La successiva legge 30 dicembre 1991, n. 413, confermava i termini degli emanandi decreti delegati, collegandone l'entrata in vigore a quelli da emanarsi ai sensi dell'art. 17 della stessa legge n. 408 del 1990. Dopo la vana attesa di quattro anni dalla entrata in vigore della legge delega, ed a quasi venti anni dalla citata prima sentenza di questa Corte, i problemi della famiglia in Italia sono stati ampiamente dibattuti alla Camera nelle sedute del 7 e 8 febbraio 1995, con la presentazione di dodici mozioni, nelle quali ancora si "impegna il Governo a realizzare un sistema di assegni familiari di idonea e significativa portata economica, con particolare riguardo alle famiglie numerose e monoreddito", e si invita l'Esecutivo ad emanare "provvedimenti per una più ampia tutela fiscale con l'introduzione del cosiddetto quoziente familiare o di un metodo equivalente che, nel tassare il reddito familiare, tenga conto del numero dei componenti, riducendo le imposte alle famiglie monoreddito e numerose". 5. - Nella fattispecie sottoposta all'esame del giudice a quo i coniugi si trovano in regime di comunione legale dei beni: ipotesi nella quale l'attuale sistema tributario, complessivamente investito dall'ordinanza di remissione, consente (art. 4 del d.P.R. n. 917 del 1986) ai coniugi di imputare i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale "per metà del loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi o per la diversa quota stabilita ai sensi dell'art. 210 del codice civile". Tuttavia, con decreto-legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge 27 aprile 1989, n. 154, alla citata disposizione è stato aggiunto il seguente periodo: "I proventi dell'attività separata di ciascun coniuge sono a lui imputati in ogni caso per l'intero ammontare". Pur considerando che il codice civile consente ai coniugi, ai sensi del ricordato art. 210, primo comma, di "modificare il regime della comunione legale dei beni", e quindi fare oggetto di comunione immediata anche i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi, che di regola appartengono alla cosiddetta comunione de residuo (art. 177, lettera c, del codice civile), è decisivo rilevare che la predetta legge 27 aprile 1989, n. 154 non è investita dall'ordinanza di rimessione. 6. - Deve osservarsi conclusivamente che dai calcoli tributari si constata senza dubbio che l'attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito e le famiglie numerose con componenti che non producono o svolgono lavoro casalingo. Queste famiglie infatti - che dovrebbero essere agevolate ai sensi dell'art. 31 della Costituzione - sono tenute a corrispondere un'imposta sui redditi delle persone fisiche notevolmente superiore rispetto ad altri nuclei familiari composti dallo stesso numero di componenti e con lo stesso reddito, ma percepito da più di uno dei suoi membri. Tali effetti distorsivi furono - come si è già notato - segnalati più volte da questa Corte, dalla dottrina e dallo stesso legislatore che, con la legge n. 408 del 1990, delegò il Governo a provvedere adeguatamente, senza peraltro che tale delega abbia avuto, fino ad oggi, alcun seguito. Ciò nonostante, è altrettanto evidente che i rimedi per il necessario ristabilimento dell'equità fiscale in materia e la tutela della famiglia sotto questo aspetto non possono essere apprestati da questa Corte mediante l'accoglimento della questione nei termini in cui è proposta, in quanto ciò implicherebbe pluralità di complesse scelte, come emerge dalle varie ipotesi prospettate dalla citata sentenza n. 76 del 1983, dalle diverse esperienze di altri Stati e dall'ampio recente dibattito parlamentare: scelte che competono esclusivamente al legislatore. Né sarebbe percorribile la via indicata nell'ordinanza di rimessione, e cioè una pronuncia che, senza prefigurare in positivo l'articolazione di nuovi criteri di tassazione dei redditi della famiglia, di spettanza del legislatore, si limiti a dichiarare l'illegittimità costituzionale delle disposizioni vigenti: ciò infatti sarebbe fonte di inammissibili lacune nella disciplina, riguardo ad una materia che richiede, invece, il costante equilibrio del sistema. Nell'ambito della complessità delle scelte e della modulazione delle soluzioni che si intendono introdurre, al legislatore spetta pertanto tener conto anche delle eventuali ricadute delle auspicate innovazioni, oltre che del reperimento delle risorse relative alla ripercussione sul gettito tributario. In ogni caso, pur con queste cautele e nella prospettiva di tutto il quadro delle varie situazioni, il legislatore non dovrà consentire ulteriormente, per rispetto ai principi costituzionali indicati ed ai criteri di giustizia tributaria, il protrarsi delle indicate sperequazioni in danno delle famiglie monoreddito e numerose. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), ed in particolare dell'art. 3, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1995. Il Presidente: BALDASSARRE Il redattore: SANTOSUOSSO Il cancelliere: DI PAOLA Depositata in cancelleria il 24 luglio 1995. Il direttore della cancelleria: DI PAOLA