Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0054 del 1969 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Disposizione oggetto: codice penale art.574:
-Argomento teleologico (ipotesi del legislatore provvisto di fini)
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)

N. 54
SENTENZA 21 MARZO 1969

Deposito in cancelleria: 28 marzo 1969.
Pubblicazione in "Gazz. Uff.le" n. 85 del 2 aprile 1969.
Pres. SANDULLI - Rel. OGGIONI

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. ALDO SANDULLI, Presidente - Prof.
GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI -
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI
OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO
CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI
- Dott. NICOLA REALE, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 574
del Codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 29 maggio 1967 dal pretore di Gavirate nel
procedimento penale a carico di Vermiglio Rosa, iscritta al n. 170 del
Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 221 del 2 settembre 1967;
2) ordinanza emessa il 29 aprile 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Bacchini Elia, iscritta al n. 101 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 184 del 20 luglio 1968;
3) ordinanza emessa il 15 maggio 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Cicala Liliana, iscritta al n. 175 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 284 del 28 settembre 1968.
Visto l'atto di costituzione di Cicala Liliana;
udita nell'udienza pubblica del 12 febbraio 1969 la relazione del
Giudice Luigi Oggioni;
udito l'avv. Nicola Catalano per Cicala Liliana.

Ritenuto in fatto:

Con ordinanza emessa il 29 maggio 1967 nel procedimento penale a
carico di Vermiglio Rosa, imputata, su querela del marito, Guerra
Walter, del delitto di cui all'art. 574 del Codice penale, per avere
sottratto al coniuge esercente la patria potestà la figlia minore, il
pretore di Gavirate ha sollevato questione di legittimità
costituzionale del primo comma dell'articolo predetto, in relazione
all'art. 29 della Costituzione.
Osserva il pretore, nell'ordinanza, che la norma citata punisce il
fatto della sottrazione, da parte di "chiunque", di un minore al
genitore esercente la patria potestà, e che, secondo l'art. 316 del
Codice civile, la detta potestà è esercitata dal padre. Cosicché
soggetto passivo del reato sarebbe il padre, ma non la madre che, anzi,
potrebbe a sua volta rendersi responsabile del reato in esame. E ciò,
anche se la Corte costituzionale con la sentenza n. 9 del 1964, nel
dichiarare la illegittimità dell'articolo in questione nella parte in
cui limitava l'esercizio del diritto di querela per il delitto in esame
al solo genitore esercente la patria potestà, ha ritenuto la norma
stessa dettata a garanzia della famiglia, e considerato anche la madre
come soggetto passivo del reato e possibile querelante. Infatti, tale
interpretazione, secondo il pretore, non impedirebbe che, permanendo
nel sistema l'art. 574 così come testualmente formulato, cioè come
una norma apprestata a difesa esclusivamente di chi esercita la patria
potestà (è infatti reato "la sottrazione al genitore esercente la
patria potestà" art. 574 del Codice penale) seguiti a sussistere una
disparità di trattamento a svantaggio della madre, che sarebbe
passibile di sanzione nel caso in cui sottragga un figlio al padre,
mentre quest'ultimo sarebbe invece indenne nel caso inverso. E tale
differenza di trattamento non potrebbe giustificarsi come un limite
posto a garanzia dell'unità familiare neppure sotto il profilo della
eventuale lesione dell'unità di indirizzo, conseguente alla
sottrazione del figlio ad opera della madre, in quanto tale
impostazione urterebbe pur sempre contro l'interpretazione della norma
in esame data dalla Corte con la citata sentenza n. 9 del 1964, secondo
cui l'offesa arrecata dalla sottrazione investirebbe, appunto, tutta la
famiglia, e non già la sola posizione dell'esercente la patria
potestà, trattandosi di reato compreso tra quelli contro l'assistenza
familiare.
L'ordinanza, notificata il 1 giugno 1967 è stata comunicata ai
Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 221 del 2 settembre 1967.
Con altra ordinanza, emessa il 29 aprile 1968, nel procedimento
penale a carico di Bacchini Elia, pure imputata, a querela del marito,
del reato in esame, per una fattispecie analoga alla precedente, il
pretore di Roma ha osservato che, in seguito alla citata sentenza della
Corte n. 9 del 1964, il disposto dell'art. 574 del Codice penale non
sarebbe più suscettibile di univoca interpretazione, in particolare
per quanto concerne la perseguibilità o meno del genitore esercente la
patria potestà (il che porrebbe la norma in contrasto con il principio
di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione:
"nessuno può essere punito se non in forza di legge preesistente al
fatto"). Invero, secondo il pretore, si prospetterebbero tre possibili
conseguenze della ricordata pronuncia in sede di interpretazione della
norma penale in esame. Anzitutto, si potrebbe ravvisare, come oggetto
giuridico della tutela penale, non l'esercizio della patria potestà,
ma "la famiglia nell'intera consistenza dei suoi interessi sociali,
morali ed effettivi" come appunto si esprime la citata sentenza della
Corte, e si potrebbe quindi sostituire il termine "famiglia" là dove
la legge parla di genitore esercente la patria potestà. Ciò facendo,
peraltro, si andrebbe oltre la portata della pronunzia, che non avrebbe
investito l'art. 574 nella parte in cui indica il soggetto passivo del
reato. A ciò, secondo il pretore, dovrebbe poi aggiungersi, come
ulteriore elemento di incertezza, il fatto che il testo della norma
prevederebbe un solo soggetto passivo del reato, mentre invece, per
effetto della sentenza della Corte, vi sarebbero due titolari del
diritto di querela, cioè entrambi i genitori. E ciò in contrasto con
il sistema del diritto oggettivo che, in nessun caso, vedrebbe estesa
la facoltà di proporre querela ad altri soggetti diversi dalle persone
offese dal reato, contemplando solo l'ipotesi della sostituzione del
titolare in caso di impossibilità. Né minore incongruenza dovrebbe
ravvisarsi nella posizione del padre che, se querelato dalla moglie per
il reato in esame, si troverebbe ad essere contemporaneamente soggetto
attivo e passivo del reato.
Sempre a mente della citata sentenza della Corte si potrebbe poi
ritenere che ad entrambi i genitori spetti una sorta di
"rappresentanza" della famiglia, in base alla quale sarebbe stata
riconosciuta anche alla moglie la titolarità del diritto di querela, o
che ad essi spetti la qualifica di soggetti passivi del reato, in
virtù del nesso che, ex art. 120 del Codice penale, corre appunto tra
soggetto passivo e titolare del diritto di querela. In ogni caso però,
secondo il pretore, si verrebbe ad urtare contro la parte rimasta in
vigore dell'art. 574 del Codice penale, che rinvia sostanzialmente alla
legge civile, cioè all'art. 316 del Codice civile, per quanto attiene
alla identificazione dell'esercente la patria potestà, quale soggetto
passivo del reato.
Ciò premesso, il giudice a quo precisa che, dalle esposte
argomentazioni, emergerebbe la impossibilità di interpretare l'art.
574 del Codice penale, il che equivarrebbe a dire che l'ipotesi
delittuosa in esame non sarebbe esattamente stabilita dal legislatore,
e si risolverebbe in un aperto contrasto con l'art. 25 della
Costituzione, il quale dispone che "nessuno può essere punito se non
in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso", e costituzionalizza così il principio nullum crimen sine
lege già accolto dal Codice penale.
A questo punto lo stesso giudice ritiene di dovere prospettare la
possibilità che, a suo giudizio, si offrirebbero all'organo della
giustizia costituzionale per eliminare la asserita anomalia del sistema
legislativo e precisamente: la dichiarazione di illegittimità
dell'intero art. 574 del Codice penale, oppure la "eliminazione" dallo
stesso di ogni riferimento all'esercizio della patria potestà, o
ancora la "modifica" dell'art. 316 del Codice civile, attribuendo ad
entrambi i coniugi l'esercizio della patria potestà.
Escluse le prime due ipotesi, per considerazioni pratiche circa gli
inconvenienti che deriverebbero dalla pronunzia in tal senso, il
pretore mostra di preferire la terza soluzione.
Conclude, tuttavia, col sottoporre alla Corte la sola questione di
legittimità dell'art. 574 del Codice penale per violazione dell'art.
29 della Costituzione.
L'ordinanza, notificata il 10 maggio 1968 è stata comunicata ai
Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 184 del 20 luglio 1968.
Con altra ordinanza emessa il 15 maggio 1968 nel procedimento
penale a carico di Cicala Liliana, il pretore di Roma dopo avere
prospettato la disparità di trattamento fra i coniugi ex art. 574 del
Codice penale in termini analoghi a quelli esposti nell'ordinanza del
pretore di Gavirate, ha osservato in particolare che la impossibilità
di ravvisare, nel comportamento del padre esercente la patria potestà
che sottragga il minore dall'ambito familiare, l'ipotesi del reato in
esame, e la posizione di predominio così attribuitagli, finirebbero
con il favorire il disgregamento della famiglia, minacciando quindi
quel principo della unità familiare che la Costituzione, invece,
garantisce.
La citata sentenza n. 9 del 1964 della Corte, d'altra parte,
avrebbe acuito la portata della disparità, poiché la nuova disciplina
processuale derivata da quella pronunzia, non consentirebbe alla madre
alcun diritto nei confronti del padre che sottragga il minore
all'ambito familiare. Invero la struttura del reato essendo rimasta la
stessa, non sarebbe consentito all'interprete di estendere la
possibilità di incriminazione ad entrambi i coniugi, ivi compreso
cioè quello esercente la patria potestà.
Ciò posto, il pretore, anche in questa ordinanza, prospetta "in
forma alternativa" due possibili soluzioni della questione: una prima
consistente nella declarazione di illegittimità della frase "esercente
la patria potestà" contenuta nella prima parte dell'art. 574, il che,
a dire del pretore, escluderebbe entrambi i genitori dalla
responsabilità penale per il reato in esame; tuttavia ritiene di dover
rilevare che se, così operando, si porrebbero i coniugi in stato di
parità, si attenuerebbe tuttavia la portata della tutela penale, che
conserverebbe la sua efficacia all'esterno della famiglia, ma
lascerebbe a suo dire impunito il coniuge che sottraesse il minore
all'ambito della stessa.
Più convenientemente invece, secondo il pretore, potrebbe operarsi
dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 316 del Codice civile,
nella parte in cui dispone che la patria potestà è esercitata dal
padre.
In tal modo si attuerebbe una maggiore logica del reato, e si
tutelerebbe nel contempo la famiglia contro ogni unilaterale ed
arbitraria sottrazione del minore, mediante un reciproco controllo
esercitabile da entrambi i genitori.
Ciò posto il pretore, ritenuta rilevante la questione in quanto
l'adozione dell'una o dell'altra delle soluzioni prospettate, o
comunque di una "diversa strutturazione del reato" inciderebbero
sull'accertamento della responsabilità penale dell'imputata, sottopone
espressamente alla Corte la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 574 del Codice penale nella parte concernente la espressione
"esercente la patria potestà" in relazione all'art. 316 del Codice
civile, là dove dispone "questa potestà è esercitata dal padre", per
contrasto con l'art. 29, comma secondo, della Costituzione.
L'ordinanza, notificata il 25 giugno 1968 è stata comunicata ai
Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 248 del 28 settembre 1968.
Avanti alla Corte costituzionale, si è costituita la Cicala
Liliana, rappresentata e difesa dall'avv. Nicola Catalano, che ha
depositato le proprie deduzioni in Cancelleria il 13 luglio 1968.
La difesa riafferma le argomentazioni contenute nell'ordinanza di
rinvio per quanto concerne la lamentata discriminazione fra il
trattamento riservato al padre ed alla madre dalla norma dell'art. 574
del Codice penale, specie con riferimento all'ipotesi della separazione
fra i coniugi, con affidamento dei minori alla madre, nel qual caso
maggiormente apparirebbe il contrasto con il principio di eguaglianza
dei coniugi.
La difesa, poi, pur dichiarando che la questione sarebbe stata
sollevata limitatamente all'art. 574 del Codice penale, che sarebbe la
sola norma direttamente rilevante ai fini del giudizio principale,
sottopone peraltro al giudizio della Corte l'eventualità di procedere
anche alla dichiarazione di illegittimità conseguenziale dell'art. 316
del Codice civile (che affida al padre l'esercizio della patria
potestà) ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, tenendo
presente che la ratio della eventuale dichiarazione di illegittimità
della norma penale si fonderebbe sul riconoscimento del contrasto della
norma stessa con il principio di eguaglianza dei coniugi, contrasto che
dovrebbe conseguenzialmente ravvisarsi anche nei confronti dell'art.
316 del Codice civile.
La declaratoria di illegittimità dell'art. 316 del Codice civile,
inoltre, sempre secondo la difesa, potrebbe eliminare la necessità di
dichiarare la illegittimità dell'art. 574 del Codice penale perché,
una volta annullato il privilegio patermo, "ed operata l'attribuzione
ad entrambi i coniugi dell'esercizio della patria potestà, verrebbero
meno i presupposti stessi della oggettività giuridica del reato, che
non potrebbe più sussistere nella sua materialità nei confronti della
madre, così come non sussiste ora nei confronti del padre".
La difesa, inoltre, riafferma il contrasto della norma penale
impugnata con il principio dell'unità familiare, giacché la
proposizione della querela per sottrazione di minore fra i coniugi
costituirebbe un elemento disgregatore della unità medesima.
Conclude pertanto chiedendo dichiararsi l'illegittimità
costituzionale dell'art. 574 del Codice penale ed eventualmente, per
via di connessione, dell'art. 316 del Codice civile.

Considerato in diritto:

1. - Le tre ordinanze, di cui in epigrafe, propongono, con motivi
in gran parte comuni, la stessa questione di costituzionalità
dell'art. 574 del Codice penale. L'identità dell'oggetto giustifica
la riunione dei giudizi per la decisione con unica sentenza.
2. - La questione è proposta nei seguenti termini:
Nelle ordinanze, si dà atto, in primo luogo, che questa Corte, con
sentenza 5 febbraio 1964, n. 9, ha dichiarato la illegittimità
costituzionale dell'art. 574 del Codice penale in riferimento all'art.
29, secondo comma, della Costituzione "in quanto limita il diritto di
querela al solo genitore esercente la patria potestà". Si osserva,
tuttavia, che resta aperta la questione se, permanendo intatta, pur
dopo la citata sentenza, la struttura oggettiva del reato nel senso,
che non ammette diversa interpretazione, di reato circoscritto alla
ipotesi di sottrazione di minore al genitore cui spetta l'esercizio
della patria potestà secondo l'art. 316 del Codice civile (cioè al
padre, di regola) e non anche al genitore che non la esercita (cioè,
di regola, la madre), sia costituzionalmente legittima, in relazione
all'art. 29, secondo comma, della Costituzione, la permanenza di tale
discriminazione, che contraddirebbe al principio dell'eguaglianza
giuridica dei coniugi.
Nelle ordinanze del pretore di Roma viene, poi, prospettata
l'eventualità che la Corte possa addivenire di ufficio alla
dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 316 del Codice civile in
quanto l'art. 574 del Codice penale ne ripete, ai fini penali, il dato
fondamentale relativo all'esercizio della patria potestà.
3. - La questione non è fondata.
Va premesso che questa Corte con la citata sentenza n. 9 del 1964
ha basato la riconosciuta estensione del diritto di querela anche alla
madre, su duplice motivo: un motivo di ordine generale, nel senso che
per l'art. 120 del Codice penale, nella disciplina del diritto di
querela, vige il principio che pone sullo stesso piano entrambi i
genitori, senza distinzione tra esercente e non esercente la patria
potestà: un motivo d'ordine particolare, nel senso che, essendo il
delitto di cui all'art. 574 del Codice penale ritenuto e classificato
come delitto contro la famiglia e l'assistenza familiare, tutelabile
nella intera consistenza dei suoi interessi sociali, morali, affettivi,
il genitore, anche se non esercita attualmente la patria potestà, non
può essere escluso dalla tutela degli interessi della famiglia.
Qualsiasi limitazione soggettiva di questa tutela, verrebbe ad eludere
il principio della eguaglianza giuridica dei coniugi, anche in
relazione all'altro principio, pur esso corrispondente ad interesse
generale, del favor querelae, principio che questa Corte, con sentenza
n. 101 del 1965 ha di nuovo richiamato appunto per distinguere il caso
della querela ex art. 574 del Codice penale dal caso del diritto di
costituirsi parte civile nell'interesse del minore, in un procedimento
penale.
Ciò premesso, va rilevato che il contenuto della citata sentenza
del 1964, in quanto limitato a risolvere la questione della
esclusività o meno del diritto di querela, non incide, nemmeno per
implicito o di riflesso, sulla questione ora proposta: ché, anzi, è
la sentenza stessa ad avvertire che la soluzione allora adottata non
conduce ad una modifica concettuale della figura del reato di cui
all'art. 574 del Codice penale, che deve pertanto continuare a
considerarsi "immutata ed inalterata".
Le ordinanze di rinvio, pur rendendosi conto che la questione,
attualmente sottoposta a giudizio, è autonoma in confronto alla
questione già decisa sulla titolarità del diritto di querela,
assumono che la struttura del reato di sottrazione di persone incapaci,
configurata in modo da escludere dalla ipotesi delittuosa di
sottrazione colui che sia nell'esercizio della patria potestà,
creerebbe, per effetto di questa immunità, una disuguaglianza
giuridica costituzionalmente illegittima nell'ambito delle posizioni
rispettive che i coniugi assumono nella società coniugale.
Ma visualizza testo argomento la Corte ritiene che l'eccepita disuguaglianza non sussista, ove
si ponga mente all'oggetto del reato di cui all'art. 574 del Codice
penale. Tale oggetto, desunto dalla formazione della norma,
dall'intento che l'ha ispirata e dalla sua lettera, consiste, entro il
quadro generale della tutela della famiglia, nella tutela di
particolari status personali, che creano poteri e, corrispondentemente,
doveri, nell'ambito del gruppo familiare.
Tale, in primo luogo, lo status di esercente la patria potestà
(spetti questo esercizio al padre o, in ipotesi subordinata, alla
madre), accanto al quale status vengono annoverati quelli relativi al
tutore, al curatore, all'incaricato di funzioni di vigilanza e di
custodia.
Il reato è concepito in funzione e tutela dell'esercizio dei
poteri affidati ai componenti delle categorie suelencate, a ciascuno
dei quali spetta il diritto di agire mediante querela contro "chiunque"
vi attenti. Spetta parimenti alla moglie, in quanto pur essa titolare
della patria potestà, il diritto di agire contro "chiunque" sottragga
il minore all'esercizio di quei poteri. Ma la struttura del reato
impedisce di far coincidere nella stessa persona (esercente la patria
potestà) il soggetto attivo ed il soggetto passivo del reato.
visualizza testo argomento Una decisione di incostituzionalità parziale della disposizione,
quale le ordinanze prospettano nel senso di pervenire così a livellare
in toto e corrispettivamente le posizioni di entrambi i coniugi col
dichiarare illegittimo l'inciso "esercente la patria potestà" di cui
alla prima parte del primo comma, presupporrebbe e, nello stesso tempo,
determinerebbe quella possibile mutazione ed alterazione della figura
del reato, già considerata inammissibile dalla precedente sentenza n.
9 del 1964.Le ordinanze 29 aprile e 15 maggio 1968 del pretore di Roma
avvertono la connessione della disposizione penale con quella dell'art.
316 del Codice civile che affida, in via primaria, al padre l'esercizio
della patria potestà: ciò per prospettare la conseguenzialità di una
eventuale duplice dichiarazione di incostituzionalità per l'una e per
l'altra disposizione. Ma, va ricordato, in proposito, che con sentenza
n. 102 del 1967 questa Corte, per motivi che inducono a ravvisare nel
capo famiglia il punto di convergenza dell'unità familiare mediante
l'organizzazione dei mezzi idonei al raggiungimento dei fini sociali
del matrimonio, tra cui l'allevamento e l'educazione dei figli, ha
escluso qualsiasi contraddizione tra detto articolo e l'art. 29 della
Costituzione.
Né, infine, può attribuirsi alla tutela dell'esercizio della
patria potestà, quale sopra si è delineato, il vizio di una
distinzione sperequativa tra coniuge e coniuge, nel senso di una
immunità accordata irrazionalmente ad uno solo di essi, poiché non è
fuor di luogo considerare che l'esercizio della patria potestà
attribuisce diritti, ma impone anche doveri, la cui inosservanza, se
pregiudizievole al figlio, potrà sempre dar luogo ai provvedimenti
giudiziali di cui agli artt. 330 e 333 del Codice civile: come pure, in
caso di separazione legale, l'inosservanza di particolari statuizioni
del giudice circa l'affidamento dei figli minori potrà essere
sanzionata penalmente anche nei riguardi dell'esercente la patria
potestà (art. 338 Codice penale).
L'art. 574 del Codice penale conserva, comunque, la sua ragion
d'essere ed i suoi limiti di operatività nell'ambito del suo contenuto
sostanziale, senza che sia fondato il dubbio di una sua illegittimità
costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 574, prima parte, del Codice penale proposta in riferimento
all'art. 29, secondo comma, della Costituzione con le ordinanze
indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 marzo 1969.
ALDO SANDULLI - GIUSEPPE BRANCA -
MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI
- GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE
VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
- FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI
OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI
- NICOLA REALE.

 
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