Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0201 del 1972 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.3 comma 1:
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)
-Giustizia come convenienza: ragionevolezza intersoggettiva

N. 201
SENTENZA 14 DICEMBRE 1972

Deposito in cancelleria: 29 dicembre 1972.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 3 del 3 gennaio 1973.
Pres. MORTATI - Rel. TRIMARCHI

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. COSTANTINO MORTATI, Presidente - Dott.
GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv.
ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO
ROSSI - Avv. LEONETTO AMADEI - Prof. GIULIO GIONFRIDA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13
del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (modificazioni delle disposizioni
sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per
la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito in
legge con legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2 della
legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle pensioni
dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i
superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903
(avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione
della previdenza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 novembre 1971 dalla Corte suprema di
cassazione - sezione seconda civile - nel procedimento civile vertente
tra Alderigi Marino e l'Istituto nazionale della previdenza sociale,
iscritta al n. 22 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972;
2) ordinanza emessa il 16 dicembre 1971 dal tribunale di Como nel
procedimento civile vertente tra Papis Carlo e l'Istituto nazionale
della previdenza sociale, iscritta al n. 69 del registro ordinanze
1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 97 del
12 aprile 1972;
3) ordinanze emesse il 24 febbraio 1972 dal tribunale di Pavia in
cinque procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Costa Giuseppe,
Milanesi Giovanni, Sandrini Giuseppe, Tassanelli Mario, Canna Luigi e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritte ai nn. 114,
115, 116, 117 e 118 del registro ordinanze 1972 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 122 del 10 maggio 1972.
Visti gli atti di costituzione di Alderigi Marino, Papis Carlo,
Costa Giuseppe, Milanesi Giovanni, Sandrini Giuseppe, Tassanelli Mario,
Canna Luigi, e dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;
udito nell'udienza pubblica del 22 novembre 1972 il Giudice
relatore Vincenzo Michele Trimarchi;
uditi l'avv. Benedetto Bussi, per Papis Carlo, Costa Giuseppe ed
altri, e l'avv. Luigi Rizzuti per l'INPS.

Ritenuto in fatto:

1. - Marino Alderigi, vedovo di Malvina Patriarca, pensionata
dell'Istituto nazionale della previdenza sociale deceduta il 3 marzo
1964, non avendo ottenuto in via amministrativa il riconoscimento del
diritto alla pensione di riversibilità perché non era risultato, alla
visita medica, che, al tempo della morte della moglie, avesse una
capacità di guadagno ridotta a meno di un terzo della norma, proponeva
domanda davanti all'autorità giudiziaria ordinaria.
La domanda veniva respinta sia dal tribunale che dalla Corte
d'appello di Torino.
L'Alderigi proponeva allora ricorso per cassazione, sollevando
pregiudizialmente l'eccezione di illegittimità costituzionale
dell'art. 13, comma quarto, del d.l. 4 aprile 1952, n. 218 (sostituito
dall'art. 2, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903), in
riferimento all'art. 3 della Costituzione.
La Corte di cassazione, in accoglimento dell'eccezione, con
ordinanza del 23 novembre 1971, considerava rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 13, comma quarto, sub art. 2 della legge 4 aprile 1952 (ora
sostituito dall'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n.
903), in riferimento agli artt. 3, 37 e 38 della Costituzione.
Osservava che la questione era rilevante in modo evidente, perché
la dichiarazione di illegittimità della norma denunciata avrebbe
comportato la cassazione della sentenza impugnata, in quanto basata su
quella norma, e la pronuncia contraria avrebbe reso rilevanti i motivi
di censura.
Circa la non manifesta infondatezza, riteneva che la riversibilità
della pensione spetta in ogni caso alla moglie superstite, e al marito
superstite invece, solo se invalido al lavoro, in forza di una
disciplina difforme a seconda del sesso del coniuge superstite. Con
tali disposizioni non sarebbe rispettato il principio di eguaglianza;
infatti, la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore (art. 37) e
ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi per vivere ha
diritto al mantenimento e all'assistenza sociale (art. 38), e d'altra
parte, non risulta evidente alcuna diversità di situazione che
giustifichi la discriminazione posta dalla norma in questione tra
coniugi superstiti in relazione al loro sesso. E non vale, in
contrario, obiettare che, considerati gli artt. 37 e 38, sarebbe
illegittimo il trattamento di favore fatto alla vedova non invalida al
lavoro e non quello previsto per il vedovo non invalido; ché, anzi,
l'obiezione sembra ribadire che è ingiustificata la denunciata
discriminazione di trattamento.
L'ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata, e quindi
pubblicata della Gazzetta Ufficiale n. 65 dell'8 marzo 1972.
Davanti a questa Corte si costituivano Marino Alderigi, a mezzo
dell'avv. Ettore Patrizi, con deduzioni depositate il 23 febbraio 1972
e l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti, con
deduzioni depositate il 28 marzo 1972. Non spiegava intervento il
Presidente del Consiglio dei ministri.
L'Alderigi, con le deduzioni e con la memoria, chiedeva che fosse
dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata.
Nella specie - assumeva l'Alderigi - non si hanno situazioni
diverse, anche con riferimento all'art. 37 della Costituzione, perché
sia nel caso in cui venga a morte il marito che nel caso opposto, il
coniuge superstite rimane solo con i figli senza il sostegno morale ed
economico che gli proveniva dal defunto. Il vedovo dovrebbe quindi
avere gli stessi diritti della vedova. E pertanto risulterebbe violato
l'art. 3, e l'illegittimità troverebbe definitivo sostegno nell'art.
37 della Costituzione.
L'Alderigi si richiamava, inoltre, al disegno di legge n. 1937
presentato nella passata legislatura dal Sen. Pozzar, con cui era stata
proposta l'abrogazione della norma denunciata, e rifacendosi alla
relazione, deduceva che anche per i diritti patrimoniali dei coniugi,
derivanti da rapporti estranei alla famiglia (come quelli discendenti
dalle assicurazioni sociali), il trattamento di parità può cedere
solo davanti all'esigenza dell'unità della famiglia e nella specie
l'eguaglianza non porrebbe in pericolo cotesta unità.
Concludeva, osservando che la pensione non soddisfa lo stato di
bisogno e che tale stato non può dirsi presunto per il vedovo, e
dichiarando erroneo l'assunto (dell'INPS) che questi sia tenuto a
provare lo stato di bisogno e che, anche quando sia ricco, gli basti la
prova dello stato di invalidità.
Sarebbe altresì opinabile la dedotta diversa posizione economica
nella famiglia, dell'uomo e della donna.
In riferimento all'art. 38, infine, l'Alderigi assumeva che da tale
disposizione deriverebbe la rilevanza costituzionale del sistema di
assicurazione sociale per tutti i lavoratori ed i loro aventi diritto,
senza distinzione di sesso.
L'INPS, con le deduzioni e con la memoria, sosteneva la tesi della
non fondatezza della sollevata questione, ma concludeva chiedendo alla
Corte di provvedere come di giustizia.
Secondo l'Istituto, premesso che la pensione ha funzione di
soccorso e che per quella di riversibilità è presunta nel vedovo la
mancanza dello stato di bisogno fino a prova contraria, la norma
sarebbe ispirata ad una realtà sociale ancora attuale che per le
differenziazioni che presenta, richiede interventi correttivi e
socializzanti. Al riguardo, va tenuto presente che ciò è avvenuto per
il coniuge-donna per il quale si ha un trattamento eccezionale che
però non si presta, in quanto tale, ad essere esteso per analogia al
coniuge dell'altro sesso. Quando la norma censurata parla di coniuge,
poi, non è esatto dire che non abbia inteso distinguere. Anzi c'è da
rilevare come proprio il requisito prescritto dall'art. 10 della legge
del 1939 per il coniuge-uomo, sia in stretta aderenza all'esatta
portata del secondo comma dell'art. 38 della Costituzione.
Si è in presenza quindi di situazioni obiettivamente diverse, per
le quali con giustificata ragionevolezza, è prevista una disciplina
differenziata. E di tale diversità si trova una conferma nella recente
decisione n. 119 del 1972 con cui la Corte costituzionale, considerato
che lo stato di inabilità indica un concetto ben più ampio e rigoroso
dello stato di invalidità richiesto dalla norma denunciata, ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 11, comma sesto, della legge 15 febbraio 1958, n. 46.
Non vi sarebbe quindi alcuna violazione dell'art. 3.
Del pari infondata sarebbe la questione in riferimento all'art. 37
(comma primo, parte prima) e 38 (comma primo), per la concettuale
inammissibilità e la materiale impossibilità dell'asserito contrasto.
Infatti, l'art. 37 garantisce i diritti e le retribuzioni alla donna
lavoratrice, parificandoli a quelli dell'uomo lavoratore e non
viceversa: e ciò, pur essendo cosa diversa, è comunque ininfluente;
e l'art. 38, primo comma, non si riferisce al campo dei diritti alle
prestazioni previdenziali a carico delle assicurazioni generali
obbligatorie, a parte il fatto che nei successivi commi non è fatto il
minimo accenno alla assicurazione e alle prestazioni a favore dei
superstiti.
2. - Carlo Papis, vedovo di Maria Vella, pensionata dell'INPS,
deceduta l'11 novembre 1960, non avendo ottenuto in via amministrativa
il riconoscimento del diritto alla riversibilità della pensione,
proponeva la relativa domanda davanti al tribunale di Como, eccependo
l'illegittimità costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903 del
1965 per contrasto con gli artt. 3, 29 e 38 della Costituzione.
Il tribunale di Como, con ordinanza del 16 dicembre 1971, riteneva
rilevante e non manifestamente infondata la questione in riferimento
agli artt. 3 e 29, comma secondo, della Costituzione.
A giudizio del tribunale, la norma denunciata darebbe luogo ad una
disparità di trattamento - rispetto alla condizione fatta dalle altre
leggi vigenti alla moglie superstite - con disfavore del marito
superstite, e tale disparità non avrebbe altra ragione giustificatrice
che la diversità di sesso.
Risulterebbe violato l'art. 3; e così pure l'art. 29, comma
secondo, della Costituzione, essendo sostenibile che l'eguaglianza
giuridica tra i coniugi, voluta dalla Costituzione, non riguardi
soltanto i rapporti giuridici nascenti direttamente dal negozio
matrimoniale concluso dai coniugi, ma altresì tutti quegli altri
rapporti che comunque si ricolleghino allo status di coniugato (o di
vedovo).
Riteneva, infine, il tribunale estraneo alla competenza del giudice
ordinario il potere di accertare quale di due distinte situazioni
giuridiche operate dall'ordinamento sia lesiva di un precetto
costituzionale, dovendo il giudice ordinario limitarsi a rilevare la
disparità di trattamento.
L'ordinanza, notificata e comunicata come per legge, veniva
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 12 aprile 1972.
Davanti a questa Corte si costituivano Carlo Papis, a mezzo
dell'avv. Benedetto Bussi, con deduzioni depositate il 29 aprile 1972 e
l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti, con
deduzioni depositate il 2 maggio 1972. Non spiegava intervento il
Presidente del Consiglio dei ministri.
La difesa del Papis chiedeva che la Corte dichiarasse
l'illegittimità costituzionale della norma in questione.
Osservava preliminarmente che una diversità di trattamento tra
coniugi può essere giustificata validamente sul piano costituzionale,
solo da ragioni strettamente connesse con l'esigenza di salvaguardare
l'unità familiare; e che tale principio, affermato ripetutamente dalla
Corte costituzionale nei riguardi dei rapporti personali e patrimoniali
fra coniugi, "non può essere negato neppure quando si verta in materia
di altri diritti patrimoniali, anche se scaturiscano da rapporti
giuridici estranei alla famiglia, come quelli derivanti dalle
assicurazioni sociali".
Nella specie, invece, si avrebbe una discriminazione tra vedovo e
vedova, non fondata su alcuna obiettiva differenza di situazione che la
giustifichi.
Secondo il Papis, d'altra parte, dall'art. 38 discenderebbe "la
rilevanza costituzionale del sistema di assicurazione sociale per tutti
i lavoratori e loro aventi diritto, senza distinzione di sesso".
Andrebbe, infine, tenuta presente la sentenza n. 53 del 1969 della
Corte costituzionale emessa in relazione ad un caso, come quello in
esame, di disparità di trattamento fondata soltanto sulla differenza
di sesso dei soggetti considerati.
La difesa dell'INPS, con le deduzioni, sosteneva la non fondatezza
della questione ma si rimetteva alla giustizia della adita Corte.
Con riferimento all'osservazione del tribunale che non rientra
nella competenza del giudice ordinario accertare quale delle due
situazioni giuridiche in esame sia lesiva di un precetto
costituzionale, l'INPS, a proposito della violazione dell'art. 38 della
Costituzione, eccepita dal Papis ma negata dal tribunale, deduceva che
la prestazione previdenziale, di carattere prettamente alimentare, ha
la funzione di sollievo dal bisogno del lavoratore e dei suoi familiari
in caso di riduzione incolpevole del reddito della famiglia o di
aumento dei bisogni connessi al carico familiare; e che tale
impostazione soffre delle deroghe in presenza di particolari e non
estensive situazioni soggettive di bisogno, che il legislatore ritiene
meritevoli di tutela e che vengono disciplinate con una specifica
normativa avente la propria giustificazione razionale nel contesto
sociale. Si è così avuta una disciplina particolare per la vedova del
pensionato, per la quale viene presunto lo stato di bisogno conseguente
alla morte del coniuge; e tale normativa è ancora operante ed attuale,
atteso il non sostanziale mutamento della posizione della donna, che
sul mercato del lavoro ha una indubbia minore competitività rispetto
all'uomo e quindi una minore capacità di guadagno, ed in tale
circostanza trova la propria giustificazione.
Aggiungeva l'INPS che, se dovesse essere ammessa la riversibilità
del trattamento pensionistico in favore del coniuge della pensionata,
indipendentemente dal suo stato di invalidità, si verrebbe a violare
il precetto dell'art. 38 della Costituzione senza una ragione
giustificatrice e sul piano giuridico e su quello sociale. La norma
denunciata, richiedendo nel coniuge superstite della pensionata lo
stato di invalidità, è, pertanto, conforme al precetto
costituzionale, ed anche perché lo stato di invalidità fa ritenere
sussistente la situazione di bisogno, tutelata dall'art. 38 della
Costituzione.
Osservava, altresì, che la disuguaglianza di trattamento in
questione non sarebbe in grado di mettere in pericolo l'unità
familiare.
E con la memoria, infine, l'INPS ripeteva identicamente le ragioni
svolte nel procedimento pendente nei confronti di Marino Alderigi, e
già ricordate.
3. - Nei cinque procedimenti civili, promossi contro l'INPS da
Giuseppe Costa, Giovanni Milanesi, Giuseppe Sandrini, Mario Tassanelli
e Luigi Canna, quali coniugi superstiti di pensionate dell'Istituto,
onde ottenere il riconoscimento del diritto alla pensione di
riversibilità, il tribunale di Pavia, con cinque ordinanze di identico
contenuto, emesse il 24 febbraio 1972, sollevava questione di
legittimità costituzionale dell'art. 22, comma quinto, della legge n.
903 del 1965 (che ha sostituito l'art. 13, comma quarto, della legge n.
218 del 1952) in riferimento agli artt. 3, 29 e 38 della Costituzione.
Sarebbe violato il principio di eguaglianza, perché un'identica
situazione (perdita del coniuge pensionato) viene disciplinata in
maniera difforme e gravemente pregiudizievole per il marito superstite;
la normativa che riconosce una posizione di favore alla moglie non
troverebbe alcuna giustificazione (uomini e donne hanno, infatti, lo
stesso diritto-dovere al lavoro, in base all'art. 4 della Costituzione)
e si porrebbe, pertanto, in aperto contrasto con l'art. 3; e ulteriori
profili di incostituzionalità potrebbero ravvisarsi sia nei confronti
dell'art. 38 della Costituzione, che sancisce il diritto di ogni
cittadino inabile all'assistenza sociale, sia nei confronti dell'art.
29 della Costituzione, che, prevedendo la parità giuridica dei
coniugi, non dovrebbe permettere una diversa disciplina (a seconda che
si tratti del marito o della moglie) di rapporti, anche previdenziali,
nascenti dal matrimonio.
Le ordinanze venivano regolarmente notificate, comunicate e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 10 maggio 1972.
Davanti a questa Corte si costituivano, a mezzo dell'avv.
Benedetto Bussi e con deduzioni depositate il 24 maggio 1972, Giuseppe
Costa, Giovanni Milanesi, Giuseppe Sandrini, Mario Tassanelli e Luigi
Canna, e l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti,
con deduzioni depositate il 30 maggio 1972. Non spiegava intervento il
Presidente del Consiglio dei ministri.
L'avv. Bussi, con gli atti di deduzioni di identico contenuto,
ripeteva le ragioni svolte a difesa del Papis nel procedimento già
ricordato. E con la memoria, contestava che il legislatore avesse
effettuato una scelta fondata su una realtà sociale per cui si doveva
ritenere, a differenza di quel che accade in caso di morte del marito,
che la morte della lavoratrice o della pensionata non producesse
conseguenze rilevanti sulle condizioni economiche del vedovo.
Osservava, anzitutto, che il fenomeno dell'occupazione femminile varia
nel tempo ed in relazione alle condizioni economiche; e che, a
proposito della questione de qua, andasse considerata la realtà
sociale delle donne che lavorano o hanno lavorato e non di tutte le
donne comprese quelle che non lavorano, la situazione cioè che si ha
quando il reddito della donna lavoratrice è necessario al mantenimento
suo come a quello del marito e dei figli, così come il reddito del
marito è necessario al mantenimento suo, dei figli e della moglie.
La morte dell'assicurata o della pensionata coniugata non produce
sulle possibilità di sussistenza della famiglia, effetti meno deleteri
di quelli causati dalla scomparsa dell'assicurato o pensionato
coniugato, specie se si consideri che la donna, con l'applicazione
dell'art. 37 della Costituzione, ha conseguito la parità salariale con
l'uomo.
In tal modo, non potendosi mettere a raffronto le percentuali di
uomini e di donne che lavorano e che quindi sono assicurati, per trarne
l'illazione che, nella società considerata nel suo complesso, sia più
probabile che la moglie - in quanto casalinga - viva a carico del
marito, si ha che di fronte ad una situazione comune a tutti i
lavoratori, uomini o donne che siano, la denunciata disparità di
trattamento non ha altra base se non la diversità di sesso e come tale
è costituzionalmente illegittima.
Secondo l'avv. Bussi sarebbe altresì violato l'art. 38 della
Costituzione perché la norma denunciata priva il vedovo di quel
diritto alla pensione di riversibilità che la legge ritiene invece di
attribuire alla vedova (anche se non invalida) in esecuzione del
principio sancito nell'art. 38 stesso.
Ed infine non costituirebbe precedente contrario alla tesi
sostenuta, la sentenza n. 119 del 1972 della Corte costituzionale, che
riguarda le pensioni dei dipendenti statali e non quelle che sono
dovute in base all'assicurazione generale obbligatoria e in forza di
una normativa ispirata a principi diversi e con finalità peculiari
proprie.
L'INPS, che nei giudizi nascenti dalle ordinanze del tribunale di
Pavia depositava memoria avente lo stesso contenuto di quelle
depositate negli altri due giudizi (Alderigi e Papis) con le deduzioni
esponeva le ragioni per le quali la questione a suo avviso sarebbe
infondata.
La diversa posizione della vedova e del vedovo risponde ad una
realtà sociale tutt'ora esistente perché, normalmente, il marito
guadagna assai più della moglie e in misura maggiore, se non
preponderante, provvede al sostentamento della famiglia, e
correlativamente la donna ha sul mercato del lavoro una minore
competitività rispetto all'uomo e, quindi, in definitiva, una minore
capacità di guadagno.
La norma denunciata, d'altra parte, risponde perfettamente al
disposto dell'art. 38 della Costituzione. Non è violato il primo
comma, perché il relativo dettato, a parte il suo carattere
programmatico e non precettivo, riguarda, soggettivamente, i cittadini
in genere (e non i soggetti assicurati) e, oggettivamente, la pubblica
assistenza (e non la previdenza sociale) e comunque presuppone
l'inabilità al lavoro del cittadino (e per ciò l'art. 22 della citata
legge n. 903 del 1965 sarebbe in armonia con l'art. 38, in quanto
richiede l'esistenza di uno stato di invalidità).
Non sarebbe neppure violato il secondo comma dell'art. 38 perché
tale disposizione, fuori dei casi di infortunio, malattia, invalidità
e vecchiaia e disoccupazione involontaria, non dà ai lavoratori una
tutela costituzionale.
E risulterebbe altresì evidente che la diversa e più favorevole
disciplina esistente eccezionalmente per la vedova trae origine dalla
necessità di adeguare la legge ad una realtà sociale tuttavia
esistente.
Infine, la norma denunciata non sarebbe in contrasto con l'art. 29
della Costituzione perché la disposizione costituzionale non spiega
riflesso nei rapporti giuridici del tutto estranei alla famiglia, come
quelli nascenti dalle assicurazioni sociali obbligatorie.

Considerato in diritto:

1. - Con le ordinanze indicate in epigrafe della Corte di
cassazione e dei tribunali di Como e di Pavia, viene sollevata una sola
questione; i relativi giudizi sono, pertanto, riuniti e possono essere
decisi con unica sentenza.
La norma sospettata di illegittimità costituzionale trova identica
espressione nell'art. 13, comma terzo, del r.d.l. 14 aprile 1939, n.
636 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie
per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la
disoccupazione involontaria), convertito nella legge 6 luglio 1939, n.
1272; nel quarto comma del detto articolo, sostituito dall'art. 2 della
legge 4 aprile 1952, n. 218, e nel quinto dello stesso articolo,
sostituito dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903.
Essa è denunciata dalla Corte di cassazione per contrasto con gli
artt. 3, 37 e 38 della Costituzione, dal tribunale di Como per
violazione del detto art. 3 nonché dell'art. 29, comma secondo, e dal
tribunale di Pavia in quanto non conforme ai detti artt. 3, 29 e 38.
2. - Il profilo costante, anche se variamente configurato, sotto
cui la questione è prospettata, è quello del mancato rispetto del
principio di eguaglianza da parte del legislatore.
Si fa riferimento alla norma secondo cui nell'assicurazione
generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti,
in caso di morte dell'assicurato o pensionato coniugato, qualora
superstite sia il marito, esso ha diritto alla pensione se è
riconosciuto inabile al lavoro ai sensi dell'art. 10, comma primo, del
citato r.d.l. n. 636 del 1939, e raffrontata codesta norma con la
disciplina legislativa dell'ipotesi opposta e cioè del caso in cui
superstite sia la moglie, si constata che le due situazioni che
sarebbero identiche, sono regolate in maniera difforme e senza che la
disparità di trattamento abbia una adeguata e razionale
giustificazione.
Nelle ordinanze, di identico contenuto, del tribunale di Pavia,
invero, si osserva che "tale normativa che riconosce una posizione di
favore alla moglie non trova alcuna giustificazione (uomini e donne
hanno, infatti, lo stesso diritto-dovere al lavoro, art. 4 della
Costituzione) e, pertanto, si pone in aperto contrasto con il citato
art. 3 della Costituzione", ed in quella del tribunale di Como,
rilevata l'esistenza "di due distinte situazioni giuridiche operate
dall'ordinamento giuridico", si dice essere estraneo alla competenza
del giudice ordinario l'accertamento di quale delle due situazioni sia
lesiva di un precetto costituzionale, dovendo il giudice ordinario
limitarsi a rilevare la disparità di trattamento. Ma codeste
precisazioni e considerazioni non possono indurre questa Corte a
ritenere che quanto meno da parte dei giudici ora indicati, la
questione sia stata sollevata in termini più ampi o differenti da
quelli già precisati ovvero che si sia inteso conclusivamente
denunciare, in quanto lesiva del principio di eguaglianza, non la norma
che prevede l'ipotesi in cui superstite sia il marito, sibbene l'intera
disciplina della materia (e quindi anche la normativa che regola il
caso in cui superstite sia la moglie).
3. - La denunciata violazione dell'art. 3 (e per quanto di ragione
dell'art. 29, comma secondo) avrebbe la sua premessa e base
nell'esistenza, nelle dette due ipotesi, di una identica situazione
oggetto della disciplina normativa. Tale situazione, che per il
tribunale di Pavia sarebbe rappresentata dalla "perdita del coniuge
pensionato", è dagli altri giudici e nelle difese più ampiamente e
correttamente individuata nel fatto del soggetto (coniugato, dell'uno o
dell'altro sesso) che lavori e nella circostanza che la retribuzione (o
il trattamento previdenziale o di quiescenza) serva al suo
mantenimento, nonché a quello del coniuge e degli eventuali figli. La
morte del lavoratore coniugato (sia esso uomo o donna) determinerebbe
eguali effetti nei confronti del coniuge superstite e dei figli, che
pertanto rimarrebbero senza il sostegno morale ed economico che ad essi
proveniva dal defunto.
All'individuazione e valutazione di codesta premessa, nell'ipotesi
normativa in esame, la Corte ritiene che non si possa pervenire.
visualizza testo argomento In altra occasione, e precisamente in sede di esame della questione
di legittimità costituzionale dell'art. 11, comma sesto, della legge
15 febbraio 1958, n. 46, in riferimento all'art. 3 della Costituzione,
la Corte, con la recente sentenza n. 119 di quest'anno, ha ritenuto che
non potessero essere qualificate eguali (e quindi meritevoli dello
stesso trattamento giuridico) le situazioni conseguenti alla morte del
dipendente o pensionato statale coniugato, qualora superstite fosse la
moglie ovvero il marito, argomentando dalla considerazione della
realtà sociale che, nonostante l'esistenza di una normativa (anche
costituzionale) rivolta al conseguimento della parità giuridica tra i
cittadini di ambo i sessi, denuncia tuttavia, nel campo del lavoro, "la
minore probabilità che sia il marito anziché la moglie a dipendere
economicamente dal coniuge, dipendente o pensionato statale" e fa
apparire tale situazione come normale.In quell'occasione, la Corte nel valutare la premessa della norma
allora in esame ha così, a proposito della situazione di fatto e
giuridica presa in considerazione dal legislatore, tenuto conto della
posizione del coniuge superstite.
Ora, mentre ritiene di dover confermare, per la questione de qua,
quella valutazione, è dell'avviso che alla medesima conclusione
(eguaglianza o equivalenza delle due situazioni di fatto e giuridiche)
debba pervenire portando il proprio esame, siccome proposto dalle
ordinanze e soprattutto richiesto dalla difesa del Papis e del Costa ed
altri, sullo stato delle cose precedente e coevo alla morte del
lavoratore coniugato.
Anche se è da ammettere che, in relazione ad una certa fascia di
famiglie, ricorra la segnalata dipendenza economica del coniuge e dei
figli dal lavoratore, uomo o donna che questo sia, bisogna, del pari e
di contro, ritenere che al di fuori di quelle ipotesi; la cui frequenza
di verificazione sarebbe comunque difficile da accertarsi e
ragionevolmente dovrebbe stimarsi limitata, quella dipendenza economica
del coniuge e dei figli dal lavoratore non ricorra necessariamente.
E tale constatazione, secondo la Corte, non può non contribuire
acché siano valutate non eguali o equivalenti le complessive
situazioni di fatto e di diritto del dipendente o pensionato coniugato
e connesse o conseguenti alla sopravvivenza del coniuge, dell'uno o
dell'altro sesso.
Nei confronti quindi di situazioni che non possono dirsi eguali o
equivalenti, appare corretto che esistano discipline differenti.
visualizza testo argomento E specificamente è giustificato e ragionevole che il vedovo sia
ammesso al trattamento in favore dei superstiti se invalido ai sensi
dell'art. 10 e cioè se la sua capacità di guadagno in occupazioni
confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente per
infermità o difetto fisico o mentale, a meno della metà del suo
guadagno normale, e che alla vedova il detto trattamento spetti senza
bisogno che la stessa debba provare la detta diminuzione della
capacità di guadagno.
Non vi è quindi alcuna discriminazione fondata sulla diversità di
sesso.4. - La violazione del principio di eguaglianza non ricorre neppure
se la si consideri alla luce del disposto dell'art. 29, comma secondo,
della Costituzione.
Codesto profilo di illegittimità costituzionale è prospettato dai
tribunali di Como e di Pavia, per i quali la norma che statuisce la
parità morale e giuridica dei coniugi vige per i rapporti
previdenziali nascenti dal matrimonio o per i rapporti che comunque si
ricolleghino allo status di coniuge o di vedovo. E nelle difese si
trova una conferma di questa tesi, e se ne ha uno sviluppo, ritenendosi
che il trattamento di parità per i coniugi può cedere solo davanti
all'esigenza di salvaguardare l'unità familiare, e si assume che nella
specie la eguaglianza non porrebbe in pericolo la detta unità.
Ad avviso della Corte, la prospettata illegittimità costituzionale
non ricorre.
Anzitutto, si è constatato che il legislatore si rivolge a
disciplinare situazioni di fatto e di diritto che non sono eguali o
equivalenti, e che quindi per il vedovo e per la vedova, nell'ipotesi
in esame, è ragionevolmente dettata una disciplina differenziata.
Il fatto che costoro siano soggetti del rapporto coniugale,
peraltro modificato nella sua originaria consistenza per la morte di
uno di essi, non comporta che in materia previdenziale,
legislativamente debbano essere trattati allo stesso modo.
Il principio di eguaglianza, posto in generale dall'art. 3, trova
nell'art. 29, comma secondo, siccome in altre disposizioni della
Costituzione, la sua conferma e specificazione. Ma l'art. 29, comma
secondo, ha un ambito di riferimento ben definito (che è dato dai
rapporti che nascono dal matrimonio) per cui non è consentito ritenere
che in esso rientrino (e che quindi godano di questa particolare
tutela) rapporti come quelli previdenziali, i cui soggetti sono
l'assicurante, l'ente assicuratore e l'assicurato e per i quali rileva
che quest'ultimo sia un prestatore di lavoro, ininfluente essendo - per
la caratterizzazione del rapporto stesso - che esso sia di un dato
sesso anziché di un altro, di stato libero o meno, separato, vedovo, e
così via.
5. - Agli artt. 37 e 38 si riporta con la sua ordinanza la Corte di
cassazione, che ne denunzia peraltro la diretta violazione, per dare un
fondamento giuridico-costituzionale alla assunta eguaglianza di
posizioni del vedovo e della vedova, in caso di morte del lavoratore
assicurato o del pensionato dell'INPS.
Escluso che si possa ravvisare sussistente tale pretesa eguaglianza
(anche alla luce - come si è precisato - della stessa normativa
costituzionale, e quindi anche dei detti articoli), viene meno
sostanzialmente il profilo sono cui le due disposizioni sono state
invocate dalla Cassazione.
In particolare, l'art. 37 che riserva alla donna la garanzia della
parità di trattamento nei confronti dell'uomo circa i diritti al
lavoro e quelli conseguenti alla prestazione del lavoro stesso, non
mette in forse la tutela di codesta esigenza, non essendo l'impugnativa
rivolta nei confronti della normativa (più favorevole) che proprio
riguarda la donna.
E l'art. 38, comma primo, poi, di cui il tribunale di Pavia assume
la violazione diretta, per ciò che esso sancisce il diritto di ogni
cittadino inabile al lavoro all'assistenza sociale, non è utilmente
invocato.
Che anzi c'è da rilevare come quella disposizione, qualora se ne
ammettesse l'applicabilità alla specie, risulterebbe pienamente
osservata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (modificazioni delle
disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la
vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria),
convertito in legge con legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con
l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle
pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la
vecchiaia e i superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965,
n. 903 (avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di
pensione della previdenza sociale), nella parte in cui, nell'ambito
della disciplina delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per
l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, dispone che, se viene a
morte un pensionato o assicurato e se superstite è il marito, la
pensione di riversibilità è a questo corrisposta, nel caso in cui
esso sia riconosciuto invalido al lavoro ai sensi del primo comma
dell'art. 10 del detto r.d.l. n. 636 del 1939, questione sollevata
dalla Corte di cassazione e dai tribunali di Como e di Pavia, con le
ordinanze indicate in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 29, 37 e
38 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1972.
COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE VERZÌ
- GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI -
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI
OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI
- NICOLA REALE - PAOLO ROSSI -
LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA.
ARDUINO SALUSTRI - Cancelliere

 
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