Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0008 del 1996 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di inammissibilità per discrezionalità del legislatore
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.3 comma 1:
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)
-Riferimento alla discrezionalità del legislatore (manca "norma a rime obbligate": no analogia iuris)
-Esplicita valutazione delle conseguenze pratiche dell'eventuale accoglimento
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.29 comma 1:
-Argomento psicologico (ricorso alla volontà del legislatore concreto)
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)
-Giustizia come convenienza: ragionevolezza intersoggettiva

N. 8
SENTENZA 11-18 GENNAIO 1996

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY;

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 384, 378 e
307 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 16 febbraio
1995 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di
Brussolo Anna Maria, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 1995 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima
serie speciale, dell'anno 1995;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di Torino ha sollevato, con ordinanza del 16
febbraio 1995, questione di legittimità costituzionale degli artt.
384, 378 e 307 del codice penale "nella parte in cui non prevedono
che la causa di non punibilità prevista a favore dei prossimi
congiunti sia estesa al convivente more uxorio", in riferimento agli
articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione.
Il giudizio penale a quo riguarda, tra l'altro, un'imputata di
reato di favoreggiamento personale in favore del convivente; la
questione, osserva il Tribunale, è dunque rilevante: l'imputata non
può giovarsi della causa di non punibilità stabilita nell'art. 384,
primo comma, del codice penale, che esonera dalla pena per diversi
illeciti, tra cui appunto il favoreggiamento personale, chi sia
costretto al fatto-reato dalla necessità di salvare un prossimo
congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o
nell'onore, giacché, agli effetti della legge penale, l'art. 307,
quarto comma, dello stesso codice fornisce una indicazione tassativa
dei "prossimi congiunti", ricomprendendovi il coniuge ma non anche il
convivente di fatto.
2. - Posto che la "ratio dell'esimente di cui all'art. 384 va
individuata nell'esistenza di un profondo vincolo affettivo,
coltivato quotidianamente, e non certo nella sanzione legale di tale
vincolo", il giudice a quo ritiene che l'esclusione del convivente
dall'ambito di applicazione della speciale causa di non punibilità
non sia giustificata, perché la situazione della convivenza in nulla
si distingue da quella del coniugio se non per la mancanza, appunto,
di una "sanzione legale" del vincolo; la relazione coniugale,
infatti, si fonda su taluni elementi essenziali, rappresentati da un
legame affettivo stabile, con disponibilità reciproca ai rapporti
sessuali, e da una base di reciproca assistenza e solidarietà,
elementi questi che danno fondamento anche al rapporto di convivenza,
improntato pure esso ai principi della "società naturale" cui ha
riguardo l'art. 29 della Costituzione. D'altra parte, un consolidato
rapporto di fatto non può dirsi costituzionalmente irrilevante,
specialmente alla luce della crescente diffusione sociale del
fenomeno, come è stato riconosciuto anche nella giurisprudenza della
Corte costituzionale con riguardo al rilievo delle formazioni sociali
(art. 2 della Costituzione).
Se quindi relazione matrimoniale e convivenza di fatto rivestono
identiche connotazioni, la diversa disciplina delle rispettive
"garanzie" comporta una violazione del principio di eguaglianza.
"Non si ignora" - prosegue il rimettente - che la Corte ha già
affrontato e risolto in senso negativo la questione, con la sentenza
n. 237 del 1986 e con l'ordinanza n. 352 del 1989; ma, rispetto
all'emanazione di quelle pronunce, il quadro normativo è mutato. Il
nuovo codice di procedura penale, infatti, stabilisce, nell'art. 199,
comma 3, lettera a), il rilievo della relazione - attuale o anche
pregressa - di convivenza di fatto sul piano della facoltà di
astenersi dal testimoniare (limitatamente ai fatti vericatisi o
appresi dall'imputato durante la convivenza). Questa previsione, che
implica il relativo avviso da parte del giudice circa la facoltà di
avvalersene (assistito dalla sanzione di nullità dell'atto, in caso
di omissione), comporta altresì effetti sul piano sostanziale:
l'art. 384, secondo comma, del codice penale esclude la punibilità
per i reati di falsa testimonianza e false informazioni al pubblico
ministero in caso di omesso avviso, da parte del giudice, della
facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza o le informazioni.
La citata nuova previsione processuale enuclea, ad avviso del
giudice a quo, un ulteriore profilo di "incongruenza" e di disparità
di trattamento a svantaggio della posizione del convivente imputato
di favoreggiamento personale, rispetto all'imputato di falsa
testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero. Se è
infatti vero che diversa è l'obiettività giuridica dei reati di
favoreggiamento e di falsa testimonianza, perché quest'ultima tutela
la giusta definizione del processo, mentre il primo tutela le
investigazioni anche preprocessuali, questa differenza risulta ben
più "sfumata" quando il raffronto sia istituito tra favoreggiamento
(a mezzo dichiarazioni alla polizia giudiziaria) e reato di false
informazioni al pubblico ministero, essendosi in tutti e due i casi
in presenza di dichiarazioni rese nel corso delle indagini
preliminari.
Osserva il Tribunale che tutte le ipotesi riconducibili all'art.
384 del codice penale si fondano, oltre che sul principio nemo
tenetur se detegere, sul riconoscimento della forza degli affetti e
dei legami di solidarietà familiare, che si basano sulle
caratteristiche proprie di quei vincoli interpersonali e non
sull'esistenza dell'atto di matrimonio; questa stessa ratio ha
trovato emersione, sia pure parziale, nella richiamata disposizione
del nuovo codice di procedura penale dalla cui applicazione,
peraltro, discende - conclude il rimettente - un ulteriore sostegno
alla fondatezza della questione, per la ingiustificata disparità di
trattamento che al medesimo soggetto (convivente di fatto) viene
accordata a seconda che si abbia riguardo alle dichiarazioni da lui
rese alla polizia giudiziaria - come è nel caso del processo a quo -
ovvero a quelle rese al pubblico ministero, essendo ricomprese queste
ultime e non le prime nell'ambito di applicabilità dell'art. 384,
secondo comma, del codice penale, in virtù della detta regola
processuale.
3. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato.
L'Avvocatura ricorda i precedenti della Corte costituzionale
(sentenza n. 237 del 1986 e ordinanza n. 352 del 1989) che avevano
escluso il contrasto con la Costituzione della normativa impugnata,
anche con riguardo all'art. 2 della Costituzione, affermando che la
eventuale parificazione della convivenza al coniugio è compito,
articolato e complesso, proprio del legislatore. Questo quadro non
può dirsi ora cambiato solo in virtù dell'intervento, specifico e
mirato, sulla facoltà di astensione del convivente di fatto dal
rendere testimonianza, sia pure con riverberi sulla punibilità del
testimone assunto senza osservare le regole; l'accennato intervento
è indice di una scelta selettiva e ragionevole del legislatore,
mentre la parificazione generalizzata delle situazioni poste a
raffronto dal Tribunale propone una richiesta additiva in materia
penale, che contrasta con gli enunciati delle decisioni già citate.
L'interveniente conclude quindi per una declaratoria di non
fondatezza della questione.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Torino ritiene incostituzionale la mancata
estensione al convivente della causa di non punibilità prevista nel
caso di favoreggiamento personale quando il fatto sia stato commesso
essendo costretti dalla necessità di salvare il coniuge da un grave
e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore. In effetti,
l'art. 384, primo comma, del codice penale prevede la menzionata
causa di non punibilità per una serie di delitti contro
l'amministrazione della giustizia, tra i quali il favoreggiamento
personale di cui all'art. 378 del medesimo codice, quando essi siano
stati commessi, nelle condizioni sopra dette di necessità, a favore
di un prossimo congiunto e questa nozione è determinata in generale,
ai fini della legge penale, dall'art. 307, quarto comma, del codice
penale, con una definizione che include il coniuge ma esclude il
convivente. Da questa mancata equiparazione del convivente al
coniuge, la questione di legittimità costituzionale del combinato
disposto degli articoli 384, 378 e 307, quarto comma, del codice
penale, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 29 della
Costituzione.
La sollevata questione non può essere accolta in riferimento ad
alcuno dei parametri invocati, per i concorrenti motivi di
infondatezza e di inammissibilità esposti qui di seguito.
2. - Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento
all'art. 29 della Costituzione, a ragione l'ordinanza del Tribunale
rimettente sottolinea la notevole diffusione della convivenza di
fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell'uso e
comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo
coniugale. Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi
sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente,
non autorizza peraltro la perdita dei contorni caratteristici delle
due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla
radicale ed eccessiva affermazione, contenuta nell'ordinanza di
rimessione, secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe
oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal
rapporto matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla
differirebbero, se non per il dato estrinseco della sanzione formale
del vincolo. visualizza testo argomento Questa Corte, al contrario, in diverse decisioni il cui
orientamento non può che essere qui confermato (sentenze nn. 310 del
1989, 423 e 404 del 1988 e 45 del 1980), ha posto in luce la netta
diversità della convivenza di fatto, fondata sull'affectio
quotidiana - liberamente e in ogni istante revocabile - di ciascuna
delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da
stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di
diritti e doveri
.. che nascono soltanto dal matrimonio.
Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta
è che la Costituzione stessa ha dato delle due situazioni una
valutazione differenziatrice. Tale valutazione esclude
l'ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico-costituzionale,
di affermazioni omologanti, del tipo di quella sopra riferita. visualizza testo argomento Questa
Corte, nella sentenza n. 237 del 1986 - che costituisce precedente
specifico per la decisione della questione in esame -, riconosciuta
la rilevanza costituzionale del "consolidato rapporto" di convivenza,
ancorché rapporto di fatto, lo ha tuttavia distinto dal rapporto
coniugale, secondo quanto impongono il dettato della Costituzione e
gli orientamenti emergenti dai lavori preparatori. Conseguentemente,
ha ricondotto il primo all'ambito della protezione, offerta dall'art.
2, dei diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali e il
secondo a quello dell'art. 29 della Costituzione. Tenendo distinta
l'una dall'altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende
possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità;
si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto
coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna
impropria "rincorsa" verso la disciplina del matrimonio da parte di
coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. visualizza testo argomento Soprattutto si
pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti
personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni,
considerazione la quale - fermi in ogni caso i doveri e i diritti che
ne derivano verso i figli e i terzi - tenga presente e quindi
rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla
soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel
rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della
famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale.
Questa valutazione costituzionale del rapporto di convivenza
rispetto al vincolo coniugale non può essere contraddetta da opposte
visioni dell'interprete. I punti di vista di principio assunti dalla
Costituzione valgono innanzitutto come criteri vincolanti di
comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione o
differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.
La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di
coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le situazioni
sotto la medesima protezione dell'art. 29 della Costituzione, risulta
così infondata.
3. - La distinta considerazione costituzionale della convivenza e
del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto, tuttavia, la
comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari
dell'una e dell'altro che possano presentare analogie, ai fini del
controllo di ragionevolezza a norma dell'invocato art. 3 della
Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose
volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare
l'essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia condotto
talora a censurare l'ingiustificata disparità di trattamento (a
danno ora della famiglia di fatto, ora della famiglia legittima)
delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e dal
coniugio (sentenze nn. 559 del 1989, 404 del 1988 e 179 del 1976).
Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni
legislative, il Tribunale rimettente fonda la sua richiesta sulla
ratio comune alle cause di non punibilità previste dall'art. 384 del
codice penale - in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi
elencati - a favore dei prossimi congiunti, ratio di tutela del
legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del
sentimento che li unisce. Poiché tale sentimento e tale legame
possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti della
famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi
sarebbe alcun ragionevole motivo - ad avviso del Tribunale rimettente
- per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.
Ma neppure sotto questo profilo - che pur si basa innegabilmente su
un dato di fatto incontestabile - la questione può essere accolta.
Essa infatti mira, come risultato, a una decisione additiva che
manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di
quelli riservati al legislatore.
Innanzitutto, visualizza testo argomento l'estensione di cause di non punibilità, le quali
costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta
strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra
ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono
la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma
derogatoria: visualizza testo argomento un giudizio che è da riconoscersi ed è stato
riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore
(sentenze nn. 385, 267 e 32 del 1992, quest'ultima in tema di cause
di improcedibilità; n. 1063 del 1988; ordinanza n. 475 del 1987;
sentenza n. 241 del 1983).
Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto
l'esigenza della repressione di delitti contro l'amministrazione
della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione
giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita
familiare, dall'altro. Ma non è detto che i beni di quest'ultima
natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si
tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la
famiglia legittima, non esiste soltanto un'esigenza di tutela delle
relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà
personali. A questa esigenza, può sommarsi quella di tutela
dell'istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e
caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano
attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro
impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente
meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque
coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione
dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel settore
dell'ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative
differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante
dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.
In più, visualizza testo argomento un'eventuale dichiarazione di incostituzionalità che
assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale
del convivente e del coniuge, rispetto all'altro convivente o
all'altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale
equiparazione delle due situazioni che - come si è detto - non
corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione,
determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale
che trascendono l'ambito del giudizio incidentale di legittimità
costituzionale.
Non ci sarebbe motivo, infatti, per limitare l'equiparazione del
convivente al coniuge, nell'ambito del primo comma dell'art. 384 del
codice penale, al solo caso del favoreggiamento personale, anche
perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori
problemi di costituzionalità, sotto il profilo dell'irrazionalità,
all'interno delle stesse fattispecie previste dal medesimo articolo.
Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell'equiparazione in
tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche
in malam partem (ad es. articoli 570, 577, ultimo comma, 605 del
codice penale), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più
diversi campi del diritto, all'esistenza di rapporti di comunanza di
vita di tipo familiare.
Sotto il profilo dell'irragionevolezza, la dedotta questione di
costituzionalità è dunque inammissibile.
4. - Le sopra esposte ragioni di infondatezza e di inammissibilità
conducono così a confermare gli orientamenti espressi nella
precedente sentenza n. 237 del 1986 di questa Corte. Senonché, il
Tribunale rimettente rileva la novità dell'ordine normativo nel
quale la questione ora riproposta viene a collocarsi. Tale novità è
rappresentata dalla norma del vigente codice di procedura penale
(art. 199) che estende la facoltà di astensione dal prestare
testimonianza (facoltà cui corrisponde il dovere del giudice, a pena
di nullità, di darne avviso all'interessato), dai prossimi congiunti
(comma 1) a chi (comma 3, lettera a)), pur non essendo coniuge
dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso..., sia
pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato
durante la convivenza: una disciplina applicabile altresì alle
informazioni assunte da parte del pubblico ministero nelle indagini
preliminari (art. 362 del codice di procedura penale, come novellato
dall'art. 5 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in
legge 7 agosto 1992, n. 356) e alle sommarie informazioni assunte a
iniziativa della polizia giudiziaria (art. 351, comma 1, del codice
di procedura penale, come modificato dall'art. 4 della predetta
novella). Da tale nuova disciplina processuale, che prevede dunque
un'ampia, anche se non totale, assimilazione del convivente al
coniuge rispetto alle dichiarazioni rese all'autorità, discendono
poi conseguenze sostanziali per entrambi. L'art. 384, secondo comma,
del codice penale prevede una causa di non punibilità relativamente
ai reati di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di false
informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) - ma non
anche relativamente alle false dichiarazioni rese alla polizia
giudiziaria: comportamento non previsto come reato specifico ma
suscettibile di integrare, in presenza degli altri elementi previsti
dalla legge, la fattispecie del favoreggiamento personale - quando il
soggetto richiesto di fornire informazioni o assunto come teste
avrebbe dovuto essere avvertito della sua facoltà di astenersi;
ipotesi, quest'ultima, che oggi, a causa della suddetta estensione
operata dall'art. 199 del nuovo codice di procedura penale, riguarda,
oltre che il coniuge, anche il convivente.
Dalla descritta evoluzione dell'ordinamento nel senso
dell'avvicinamento della posizione del convivente a quella del
coniuge rispetto alla facoltà di astensione, nonché rispetto
all'obbligo del relativo avviso e alla causa di non punibilità
prevista nel caso di omesso avviso, il Tribunale rimettente trae
ragione per ribadire l'incongruenza della disciplina riguardante le
dichiarazioni rese dal convivente in sede di sommarie informazioni
assunte a iniziativa della polizia giudiziaria. Il fatto materiale,
infatti, potrebbe essere il medesimo, consistendo in false
dichiarazioni, dichiarazioni rilevanti però a titolo di
favoreggiamento personale davanti alla polizia giudiziaria e a titolo
di false informazioni o di falsa testimonianza davanti al pubblico
ministero o al giudice. Ma solo in questi due ultimi casi e non nel
primo valendo la causa di non punibilità prevista dal secondo comma
dell'art. 384 del codice penale, analogo comportamento - le false
dichiarazioni nel caso di omesso avviso della facoltà di astensione
- può andare esente da pena se tenuto davanti al pubblico ministero
o al giudice, ma non se tenuto davanti alla polizia giudiziaria, pur
nell'identità delle norme processuali presupposte.
Affinché tali rilievi critici del giudice rimettente, in ordine
all'accennato motivo di irrazionalità della normativa vigente,
possano avere accesso all'esame di questa Corte, dovrebbero tuttavia
essere formulati nell'ambito di una questione di costituzionalità
essenzialmente diversa da quella presente, l'ipotizzata
discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il coniuge e
il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente),
a seconda dell'autorità ricevente le sue dichiarazioni, e
riguardando una diversa causa di non punibilità: non quella prevista
nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma dell'art. 384 del
codice penale. Pertanto, se tale era l'intento del giudice
rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente
percorsa della richiesta equiparazione del convivente al coniuge
sotto il profilo del primo comma dell'art. 384 del codice penale:
una via, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti,
anche artificiosa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307,
quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art.
3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino, con
l'ordinanza indicata in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307,
quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art.
29 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con la medesima
ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 1996.

Il Presidente: Ferri
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 18 gennaio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola

 
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